Scivola fra le mani il mazzo nuovo e s’inceppa quello vecchio. È solo cartone. Una coppa sarà un Sacro Graal da undici punti che un semplice cavallo potrebbe portarsi nel mazzo. Basta che sia del seme giusto.
Il mazziere mescola queste figurine.
Quanto di magico c’è in questo gioco, nel fatto stesso di giocare, si manifesta solo nel giocare stesso. Il numero delle combinazioni è il fattoriale di 40. Un numero delicato nella sua imponenza. È una quantità enorme che sembra schiacciare chi gioca nella sua enormità. Così, il mistero centrale (chi vincerà?) si vede affiancato dal mistero delle cifre.
Sul tavolo, sparecchiato perché scivolino le carte, sono queste distribuite.
I giocatori, prendendo le carte, si spogliano del loro io naturale, si fanno seri, creano il vuoto dentro di sé. Guadagnano tutti una nuova personalità; la stessa personalità, ancestrale e vernacolare, che è stata dei giocatori del passato, di coloro i quali hanno insegnato loro a giocare; una personalità furba, attenta e falsa, immodesta e sicura di sé, abile con i numeri e piena di ricordi delle partite passate, in grado di farsi avanti violenta se necessario.
Inizia il gioco.
I giocatori sono accoppiati: ora sono obbligati a stimarsi. Non importa se dopo la partita non berranno mai insieme, o se poco prima hanno litigato per una cosa di poco conto: ora sono compagni di ventura, desiderosi entrambi di vincere la partita, e diventeranno per questo l’un con l’altro sinceri come non lo saranno mai stati neanche con il migliore amico.
Si parla, ci si scambia informazioni.
Il giocatore mediocre parlerà solo per il compagno, quello pessimo solo per sé. Ma il giocatore bravo parlerà soprattutto ai suoi avversari e farà come i due barattieri Moshe e Daniel, di cui ci parla Jorge Luis Borges, che, incontrandosi nel mezzo della pianura russa, si dicono:
M: “Dove vai Daniel?”
D: “A Sebastopoli.”
M: ”Tu menti, Daniel. Mi rispondi che vai a Sebastopoli perché io pensi che tu vada a Niznij-Novgorod, ma la verità è che tu vai davvero a Sebastopoli. Tu menti, Daniel.”
I giocatori nascondono le tre carte che tengono in mano. Una carta sul tavolo gestisce il destino delle altre.
I pezzi di cartone sono diventati amuleti, mitologie a buon mercato, esorcismi, necessari a dimenticare la vita quotidiana; si gioca voltando le spalle al mondo, formano a propria volta, sul tavolo, un mondo altro. Un mondo popolato dalla sfida e dalla fortuna, dalla pazza imprevedibilità degli incroci delle possibilità, dal segnapunti, dal sette di denari che tintinna, dal re di bastoni che conquista, dalle spade che s’incrociano. I giocatori vivono in questo mondo. Un mondo angusto: creato da una fattucchiera di quartiere, da un bindolo da strapazzo, ma non per questo meno inventivo e diabolico che qualsiasi altro mondo sostitutivo.
Venti carte sono già distribuite su due mazzi, e da un terzo le avide mani dei giocatori fanno a gara a chi arriverà per prima, ma già si sa chi vincerà e chi perderà.
È un gioco che conosce formule per esaltare i vincitori e per consolare i perdenti.
È un gioco di carte molto povero, lo so, ma un filosofo da quattro soldi potrebbe utilizzarlo per dimostrare la ciclicità del tempo. Infatti, i diversi stadi della polemica col compagno, i rovesci improvvisi della sorte, le sorprese, le ultime mani coi carichi più importanti, le esegesi degli ammiccamenti, sono cose che non possono non tornare. Devono ripetersi secondo sequenze remote. Anche il giocatore, in realtà, non fa altro che ricalcarsi, replicare partite passate: come se infinite generazioni di giocatori fossero dentro di lui.
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